La ripresa tragica e la «Mirra»

La Mirra nasce al termine di una lunga tensione spirituale e sentimentale, di un esercizio artistico e di un’analisi interiore (i folti gruppi delle Rime intorno e dopo il Saul, l’Agide e la Sofonisba) che pur corrispondono ad una perdita di energia drammatica centrale, ad un certo frammentarsi del grande nucleo tragico alfieriano in momenti di estrema finezza, in movimenti alti e profondi, in velleità tragiche promettenti ma irrealizzate, incapaci (al di là della speciale dimensione dei sonetti e di alcuni loro risultati piú pieni) di organizzarsi, in parte per la loro stessa ricchezza e novità, in una nuova intuizione poetica coerente ed unitaria.

L’animo alfieriano si era venuto continuamente arricchendo di venature di sensibilità, di espansioni di tenerezza, di scatti elegiaci e patetici (con dentro impeti piú fondi di energia e di sdegno), la sua attenzione alla sorte misera ed alta degli uomini, ai compensi affettivi della tragedia umana si era venuta ampliando fino all’espressione anche di quegli affetti familiari, di quella altruistica simpatia che (pur su di un piano sentimentalmente aristocratico essenziale nell’Alfieri, in un cerchio preclusivo ad ogni volgare mediocrità, ad ogni indiscriminata pietà “filantropica”) vibra ora ben piú intensamente di quanto avvenisse nelle opere dell’epoca piú giovanile. E, d’altra parte, le sue esigenze tecniche e di linguaggio poetico si eran venute facendo piú varie e complesse, come si può già rilevare, prima dello stesso Saul, nell’esercizio interessantissimo della Merope, nella complessità della sua tecnica scenica, nella ricerca anche di un linguaggio piú vario ed affabile, adatto ad un mondo minore e meno eccezionale a cui del resto il poeta dette già espressione nel Saul, nel quale tante delle nuove componenti dell’animo alfieriano trovano alta realizzazione poetica.

Nel periodo immediatamente successivo al Saul la direzione prevalente della poesia alfieriana è certamente quella lirica, e le due tragedie Agide (ideata il 30 agosto dell’84, stesa tra l’84 e l’85, verseggiata nel maggio-giugno dell’86) e Sofonisba (ideata il 29 settembre 1784, stesa il 13 dicembre dello stesso anno, verseggiata una prima volta nell’86 e una seconda nel maggio dell’87), pur cosí interessanti per nuove meditazioni, per ansiose ricerche di temi sentimentali, e come esercizi di linguaggio coerente a tutto uno scavo sentimentale di singolare finezza, documentano la difficoltà dell’Alfieri di ritrovare la sua vera ispirazione tragica e di raccogliere intorno ad essa tutta la nuova ricchezza, fra sentimentale e poetica, che chiedeva una nuova espressione unitaria.

In quelle opere la ripresa tragica è fortemente legata al mondo piú lirico e atteggiato in forme di profondo “diario” poetico delle Rime, ed esse ne riflettono il prevalere di una intonazione elegiaca e lirico-patetica, una maggior disposizione a far “parlare” piú che agire i personaggi, a contemplare di questi gli atteggiamenti magnanimi, generosi, “sublimi”, in senso altruistico, a circondarli di una luce di pietà e di ammirazione coerente al clima sentimentale delle Rime, all’esuberanza di elementi elegiaci ed affettuosi di queste, ai temi del “vivere in altri”, del sacrificio della propria persona in favore della persona amata, della miseria e nobiltà della natura e della sorte umana. Temi che portavano ora l’Alfieri a meditare poeticamente piú sulle vittime infelici che non sui potenti individualistici tiranni delle sue prime tragedie e ad esprimere nei suoi nuovi personaggi piú che la tensione individualistica e il prepotente bisogno di azione e di affermazione contro ogni limite, una singolare “sublimità” di sentimenti generosi e altruistici, un mondo di affetti intimi, umani, familiari (amore, amicizia) che, se sorgono sempre su di una base di eccezionale nobiltà spirituale, di aristocratica distinzione da un’umanità mediocre, mancano di un drammatico forte sostegno, del sicuro raccordo con il grande motivo tragico alfieriano quasi soffocato sotto l’esuberanza e l’urgenza di tanti motivi spesso non compiutamente liberati dal loro carattere di esperienza e di aspirazione pratica, o piú originalmente disposti a vivere nello svolgimento lirico di un sonetto o di cicli di sonetti.

Debole, e piú intellettualmente complicata che poeticamente complessa ed efficace, è l’azione dell’Agide. Nel tentativo di armonizzare singole espressioni patetico-elegiache, specie nella direzione di affetti privati, con un nucleo drammatico effettivo, l’Alfieri ricorse allo schema politico che aveva tante volte sperimentato e che implicava un piú facile effetto di contrasto (uomo libero-tiranno), ma nell’urgere confuso di nuove meditazioni sulla politica e sugli stessi tiranni egli finí per complicare anche tale schema, privandolo della sua efficacia oratoria (cosí forte nelle giovanili «tragedie di libertà») e caricandolo di velleità e di motivi non ben chiariti e non congeniali alla vera natura dei suoi ideali e sentimenti politici. Infatti nella ripresa di una «vita» plutarchiana (la vita del re spartano Agide, che viene ucciso nel tentativo di restaurare le leggi egualitarie di Licurgo), l’Alfieri volle dare un particolare contenuto al suo tema della «libertà» come eguaglianza sociale ed economica, sicché le stesse generose declamazioni di Agide in lode della «sublime uguaglianza» suonano astratte, non sentite dal poeta, mentre d’altra parte l’impostazione di Agide come re «liberatore», preoccupato del bene del suo popolo, corrisponde sí ad una lunga meditazione alfieriana sulle possibilità di conversione dei re in uomini liberi e al vagheggiamento della libertà mediante il gesto magnanimo di un sovrano, ma tale meditazione e tale vagheggiamento non hanno raggiunto quella certezza sentimentale che aveva invece raggiunto la fede nella soluzione violenta e rivoluzionaria del problema politico nella Tirannide e nelle giovanili tragedie della libertà.

Nella Sofonisba lo schema politico viene invece scartato: la lotta fra Cartagine e Roma non ha alcuna efficacia, neppure come sfondo grandioso della tragedia, e l’odio di Sofonisba per i romani cede rapidamente di fronte alla sua ammirazione per Scipione e ai sentimenti di generosa abnegazione per il marito Siface e per Massinissa. Sicché ogni vero contrasto tra i personaggi si riduce a una gara di generosità e di altruismo, e il supremo urto alfieriano degli individui contro il limite della realtà si dissolve in un’aura di generale, dolente fatalismo; la fantasia del poeta si espande liberamente in un’orgia di gesti “sublimi”, di dialoghi “virtuosi”, magnanimi ed elegiaci, irrorati di sentimentalismo, di pietà e ammirazione per questi «infelici eroi», la cui vita piú vera e scarsamente individuata si esprime in passaggi e atteggiamenti di singolare finezza sentimentale.

Ma, in mezzo a queste tragedie e al lavoro piú ricco e vario di questi anni, tale incapacità tragica e sintetica viene decisamente superata nella grande Mirra, nata entro una condizione sentimentale omogenea a quella da cui nascono le altre due tragedie, ma sorta da una zona dell’animo tanto piú profonda, centrale e ispirata, da una intuizione e da uno sviluppo schiettamente tragico del personaggio centrale e della sua situazione, in cui le qualità di finezza spirituale, di tenerezza e di delicatezza dei sentimenti, la luce di pietà e di ammirazione per gli «infelici eroi» che si potevano notare nell’Agide, e piú ancora nella Sofonisba, trovano sviluppo organico e potente giustificazione poetica unitaria, investite come sono da un possente motivo drammatico che a sua volta ha guadagnato in forza intima, in ricchezza di gradazioni e di sfumature sottili, operando in un personaggio gentile, puro, aristocraticamente delicato, in un ambiente familiare e umano, in una zona di affetti nobili e teneri alla cui espressione l’Alfieri si era preparato già nella Merope, in alcuni aspetti del Saul, e soprattutto in molte direzioni delle Rime e nelle due tragedie precedenti.

Cosí mentre quelle stesse tragedie fallite, specie la Sofonisba (nella quale si attenua il motivo politico e il contrasto fra personaggi “virtuosi” e personaggi scellerati scompare), graduano il passaggio alla Mirra, solo in questa l’Alfieri riesce ad unificare la sua ricchissima esperienza sentimentale e poetica, accresciuta in quegli anni con tanti nuovi elementi di estrema finezza, in un personaggio vitale e drammatico, in una situazione che insieme gli permetteva di esprimere, in queste nuove condizioni della sua sensibilità, la sua centrale intuizione tragica della vita. E cosí la Mirra rappresenta, oltre tutto, un momento essenziale di sintesi degli elementi particolari della vita sentimentale e poetica dell’Alfieri negli anni delle Rime, e del fondamentale motivo tragico che è nel centro piú profondo del suo animo e che ora vien condotto al suo estremo sviluppo, al suo significato piú assoluto e ad una perfetta, incarnata vita poetica (Alfieri poeta e non costruttore di “simboli”), alla conclusione suprema di una lunga e tormentosa esperienza interiore ed artistica.

La genesi della Mirra (ideata in Alsazia l’11 ottobre 1784, stesa tra il 24 e il 28 dicembre 1785, versificata una prima volta fra il 7 agosto e l’11 settembre 1786) è assolutamente originale e libera da ogni motivo di gara letteraria-teatrale e di attenzione a precedenti testi drammatici[1]: tanto piú che il terribile soggetto sostanzialmente rimaneva fermo e fissato nella forma che gli aveva dato Ovidio nelle Metamorfosi. Da quel testo classico lo riprese l’Alfieri in un momento in cui il suo animo pessimistico-eroico, elegiaco-drammatico era singolarmente disposto a ricevere una profonda impressione dalla lettura della vicenda pietosa e tragica dell’infelice fanciulla e a rilevarne l’aspetto piú coerente alla sua meditazione e commozione sugli «infelici eroi».

Naturalmente la tragedia alfieriana segue una direzione profondamente diversa rispetto all’episodio ovidiano (centrato, nel monologo di Mirra, sull’esaltazione della felicità degli animali che non conoscono il divieto dell’incesto). E la pagina della Vita e le parole del Parere che riferiscono la genesi della tragedia a quella lettura e all’impressione fortissima riportatane dal poeta, mettono in rilievo lo spirito diversissimo con cui l’Alfieri interpretò il testo di Ovidio, isolando in quello la «caldissima e veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice»[2], cioè la parte in cui la passione incestuosa per il padre è piú taciuta nel suo nome e nel suo soggetto scellerato, in cui piú forte è la lotta del pudore di Mirra nel contenere l’affetto che la tormenta. Su questo spunto drammatico, abolito lo svolgimento del desiderio appagato mediante la collaborazione della nutrice mezzana e di un Ciniro donnaiuolo senza scrupoli, l’Alfieri intuí in un «subitaneo lampo» lo sviluppo diverso della sua tragedia, da lui sentita «toccantissima ed originalissima» quanto piú egli fosse stato capace di «maneggiarla in tal modo che lo spettatore scoprisse da sé stesso a poco a poco tutte le orribili tempeste del cuore infuocato ad un tempo e purissimo della piú assai infelice che non colpevole Mirra», di fare «operare [da Mirra] quelle cose stesse, ch’ella in Ovidio descrive; ma operarle tacendole»[3].

L’incontro di “orrendo” ed “innocente” nel cuore di Mirra era infatti, oltre che una potente base di svolgimento psicologico e di scavo nel «cupo, ove gli affetti han regno», la traduzione di un estremo approfondimento del motivo tragico alfieriano portato alla sua espressione piú dolorosa e desolata, piú assoluta e profonda, ché proprio una fanciulla innocente e sensibilissima, la creatura piú nobile e pura che l’Alfieri abbia mai concepita e colorita dei colori piú affascinanti di una prima gioventú (bellezza, finezza spirituale, modestia e tenerezza, ricchezza di vita sentimentale e fantastica), è invasa da una passione tremenda e invincibile, la piú scellerata che animo umano possa concepire: e proprio in quella direzione del sentimento amoroso che l’Alfieri sentiva come uno dei piú alti compensi della vita, come supremo «ristoro» alle pene dei mortali. Il “limite” contro cui gli eroi alfieriani lottano disperatamente si è qui realizzato in una passione invincibile, che potrà essere sradicata solo con la morte (e si noti come il preromantico Alfieri dava qui supremo rilievo alla potenza invincibile delle passioni, contro la fiducia illuministica nella potenza ordinatrice e rasserenatrice della ragione). E il dramma degli uomini è condotto al suo fondo piú doloroso e pietoso nella tragedia di un essere puro e innocente, disposto agli affetti piú delicati e nobili e invece esposto alla contaminazione di uno scelus orribile. Il pessimismo alfieriano trova qui le sue note piú profonde e, ancor piú che nello stesso Saul, investe piú intimamente i rapporti fra l’uomo e le forze superiori che lo espongono a una sorte cosí dolorosa contaminandolo nelle sue condizioni piú pure e gentili (non piú il tragico e gigantesco Saul, ma una fanciulla fragile e colpita nell’età luminosa dell’adolescenza fervida di speranze e di sogni), obbligandolo a impiegare in fine la sua forza di vita nella ricerca volontaria, e insufficiente, della morte.

Carattere estremo della Mirra che la critica ha in genere meno accentuato, rilevando soprattutto l’aspetto di lotta psicologica nel personaggio centrale, ma perdendo in genere il nucleo piú segreto e potente, il significato profondo e il legame con il fondamentale motivo tragico alfieriano di cui quella tragedia è il supremo sviluppo, come è il risultato dello scavo alfieriano nel «cupo, ove gli affetti han regno», della profondità psicologica ed artistica del grande poeta giunto al piú intero possesso dei suoi mezzi espressivi resi capaci di esprimere insieme la forza e la ricchezza di sfumature, l’energia e la delicatezza della sua fantasia.

E fu semmai un risoluto avversario dell’Alfieri, il gesuita Arteaga, a individuare – anche se in maniera molto discutibile –, in una sua stroncatura della Mirra[4], questo significato e questo motivo profondo della tragedia nel pessimistico, tragico rapporto fra l’uomo e la divinità che era del tutto assente nella narrazione ovidiana[5] e che l’Alfieri mitizzò nelle vendetta di Venere[6] e piú profondamente fece vivere nella situazione stessa della sua infelice eroina: non caso patologico, ma estrema rappresentazione della sua tragica intuizione della vita e della natura umana: «La rappresentazione [...] d’un amore contro natura […] la virtú quasi ridotta a soccombere sotto il peso d’un tanto delitto; la Divinità che non sol permette, ma sforza un cuore innocente a concepire una fiamma sí rea [...] sono tutte immagini dalle quali, atteso l’attuale nostro sistema di morale e di religione, non veggo assolutamente quai vantaggi abbiano a ritrarsi per l’innocenza, e molto meno per la pietà. Veggo bensí, e il veggo pur troppo, che in uno spirito riflessivo e coerente le conseguenze immediate che tali dipinture fanno nascere non sono, né possono essere altre che il dispetto contro la Provvidenza, l’aborrimento dell’umana condizione, e la sconsolante indolenza che vien prodotta dal fatalismo»[7].

Nella sua posizione polemica di cattolico coerente, e reso piú acuto e consequenziario dalla sua cultura razionalistica, l’Arteaga avvertiva il carattere di tragico pessimismo della Mirra, la presenza di una intuizione di valore universale e spirituale (non solo la lotta psicologica fra pudore e passione, che da quel motivo piú profondo trae la sua forza tragica piú vasta, il suo carattere piú doloroso e pietoso). Anche se la sua impostazione moralistico-confessionale non gli permetteva di capire il valore poetico di quella intuizione tragica (non una discussione filosofica da combattere su terreno filosofico, non una predicazione di cui condannare le conseguenze pratiche) e gli faceva perder di vista l’altro punto fondamentale nella Mirra e nella intuizione tragica alfieriana (su cui tanto finemente insisteva la Teotochi Albrizzi nella sua difesa): il valore positivo del pessimismo alfieriano, che non si riduce a “indolenza fatalistica”, perché proprio nella lotta di Mirra e nella sua stessa catastrofe (la piú tormentata e prolungata delle tragedie alfieriane) risplende pienamente la forza tenace con cui quello spirito puro e nobile, a suo modo eroico pur nella sua delicata fragilità femminile, si oppone sino all’ultimo alla rivelazione della sua passione, rifiuta di concedersi a questa, si sforza di sfuggirle (seppure sapendo che quella non può essere dominata, abolita con un semplice ricorso alla ragione e alla morale) con la morte, e con la morte insieme tenta di liberarsene e si punisce per averne solo pronunciato il terribile nome. E, pur nell’estrema delusione di essersi uccisa troppo tardi e di morire «empia» agli occhi del padre e della madre, disperatamente invoca e rimpiange la sua innocenza, tutt’altro che “indolente” e rassegnata.

Ché, in questo momento di estrema maturità della poesia alfieriana, il pessimismo e un’alta fede eroica (tanto piú profonda perché affidata ad un personaggio che non ha sete di potenza, di dominio, ma solo disperato bisogno di salvare la propria purezza – e in questo si trasvalora piú umanamente la tragica ansia di altri titanici personaggi alfieriani) trovano la loro tensione piú intima e il loro incontro piú sicuro ed organico. Ancora (ma questa volta realizzato in grande poesia e in un’opera tragica intera – anzi la piú perfettamente coerente dell’Alfieri) un ulteriore sviluppo di quel tema della miseria e nobiltà della natura umana che tanto aveva dominato la fantasia e il sentimento alfieriano in questi anni della sua maturità.

Questa grande tragedia vive soprattutto nello sviluppo del personaggio centrale e della sua azione, rispetto ai quali gli altri personaggi hanno una fondamentale funzione di collaborazione e accentuano il clima di dolore e di pietà, il calore di affetto e di ammirazione che circonda Mirra. Mirra muove da un punto di partenza già disperato, entro una situazione chiusa ed angusta, da una prima coscienza della difficoltà della sua lotta: dato che essa considera chiaramente la sua passione come invincibile, e sa che non potrà ricacciarla da sé con un semplice atto di catarsi morale, che non potrà liberarsene e riprendere la sua vita, ma che potrà vincerla solo con l’eliminazione stessa della propria esistenza. Né spera in un soccorso divino o umano, ché il primo è escluso dalla coscienza, prima vaga poi aperta, che la stessa passione ha origine in una vendetta e in un abbandono degli dei; e il secondo è impari all’enormità del suo amore scellerato.

Esclusa ogni possibilità di soluzione felice, Mirra agisce inizialmente per ottenere la liberazione e la morte in una forma piú consona alla sua delicata natura femminile e al suo giovanile bisogno di compenso, almeno nella immaginazione, di quanto non sarebbe il suicidio. Con le nozze essa collega infatti la partenza da Cipro, l’allontanamento dalla «reggia infausta» e la morte «di dolore» che seguirà al distacco dal padre, ma insieme cosí facendo essa vagheggia, illudendosi, una partenza per mare al mattino di cui esalta inconsciamente la luminosa allusione di liberazione e di evasione insita nelle immagini (dar «le vele ai venti»).

Per tre Atti Mirra persegue, pur fra i contrasti legati all’istintivo aborrimento di un legame con il non amato Pereo, questo suo obbiettivo, sforzando il fidanzato e i genitori ad accettare la soluzione delle nozze, vincendo in se stessa le lusinghe della passione che la tratterrebbero a Cipro e gli stessi momenti di abbattimento che si precisano di fronte alla difficoltà di attuare il suo piano e di continuare a celare la passione invincibile, e che la inducono a un certo punto a chiedere la morte alla nutrice Euriclea.

Ma quando nel IV Atto ha luogo effettivamente la cerimonia delle nozze, la passione a lungo contenuta si tramuta in un moto invincibile di repulsione per quell’aborrito legame, la cerimonia è interrotta e quella possibilità di evasione, di liberazione nelle nozze-morte si infrange come in un anticipo di catastrofe. Ed ecco cosí Mirra ripiegare sulla richiesta della morte al padre e alla madre, e quando anche questa possibilità di liberazione si dimostra impossibile, nel V Atto Mirra lotterà ormai solo per conservare il segreto della sua passione. Ma anche questa disperata difesa crolla nel dialogo supremo con Ciniro e ancora, dopo che Mirra si è trafitta col pugnale, in un incalzare della catastrofe mai cosí intensa e complessa, l’estrema speranza della fanciulla di celare il suo peccato almeno alla madre è anch’essa frustrata, e l’infelice eroina, la vittima di una sorte spietata e accanita, muore esprimendo insieme la delusione suprema di non essere riuscita a morire innocente e la squallida esaltazione della sua eroica ansia di purezza e di liberazione dalla passione.

La linea della tragedia si presenta cosí saldissima e articolata in momenti, in fasi ben individuate, assicurata a nodi tragici potenti, a temi poetici ben precisi sotto la trama finissima e mirabilmente graduata, e tutto si risolve perfettamente in azione tragica, in rappresentazione, ben diversamente da un’impressione superficiale di monotonia, di lentezza, di indugio in quei discorsi e in quel minuto rilievo di sottili sfumature psicologiche, che non sono mai fini a se stesse ed implicano un continuo, implacabile sviluppo dell’azione tragica.

Cosí sarà possibile intendere anche il significato e il valore vero dei cori della scena 1 dell’Atto IV della Mirra. Il poeta a questo punto di svolta essenziale della tragedia, dove s’infrange la disperata lotta di Mirra per ottenere la morte attraverso le nozze, la partenza per Cipro, l’impossibilità di sopravvivere lontana da Ciniro, sentí il bisogno di creare una eccezionale tensione tragico-teatrale (Alfieri non è un lirico che si esprima malgré lui in schemi teatrali impaccianti, ma un poeta tragico autenticamente bisognoso di espressione teatrale) per cui si serví di quei cori, comunemente considerati come inserimento convenzionale e impoetico di un procedimento teatrale neoclassico e di un linguaggio innografico letterario e fiacco. Mentre essi erano lí collocati affinché, proprio con il loro linguaggio piú convenzionalmente decoroso, creassero come un’ossessiva, monotona cupola sonora, una continuità salmodiante sotto cui far risuonare tanto piú struggente e drammatico, da sommesso a lacerante, il crescendo della passione di Mirra, sollecitata dalle domande inquiete dei personaggi minori e dalle immagini compendiosamente evocate dai cori che, per analogia e per contrasto, la richiamano alla sua situazione e che in tale senso tanto piú funzionano proprio con la loro voce di una umanità rituale e convenzionale, comune e normale, in pace con gli dei e con gli uomini.

Ai personaggi minori non va infatti ovviamente richiesta una autonoma esistenza: essi vivono, hanno la loro poesia nel loro legame con Mirra, in rapporto al suo dramma che li turba e provoca la loro reazione di pietà, di dolore, di speranza, di pena per la propria incapacità di comprenderlo e di risolverlo come essi vorrebbero. A questa loro funzione essi sono esattamente commisurati e mentre essi hanno in tal senso una certa natura corale (il mondo normale, umanissimo, che senza Mirra sarebbe però solo decorosamente comune, idillico, pacificato), la loro individuale esistenza serve a graduare lo svolgimento della tragedia, rileva il tormento, la solitudine e il bisogno e il ritegno di confessione di Mirra (il suo dolore è anche dolore per gli altri che essa involontariamente tormenta), e acquista valore poetico in quanto meglio sensibilizza le qualità umanissime di Mirra e rende piú evidenti i suoi atteggiamenti, che variano a seconda dei personaggi con cui essa viene a contatto. Astrattamente considerati in sé e per sé essi non sfuggirebbero ad una critica anche dura: Ciniro troppo buon padre e privo di quel fascino ardito che forse si poteva richiedere al «piú avvenente infra i mortali», Cecri troppo «mamma e ciarliera», Euriclea che sa «un po’ troppo di balia», come disse l’Alfieri nel Parere[8], Pereo troppo “sublime” e privo dell’energia individualistica piú comune ai personaggi alfieriani. Ma nella concreta vita poetica della tragedia essi traggono efficacia proprio da quelli che apparirebbero i loro difetti in un’altra tragedia, costruita per forti contrasti e per urto fra i personaggi. L’umanità paterna di Ciniro renderà piú tormentosa e difficile a Mirra la sua lotta per conservare di fronte a lui il suo segreto e renderà piú avvilente per lei una passione che viene a tradire tanta confidenza e amorevolezza. L’ingenuità materna di Cecri ecciterà con la sua incomprensione, in certi punti delicatissimi, la reazione gelosa di Mirra e viceversa risolverà con la sua tenerezza carezzevole la tensione della figlia in impeti disperati di abbandono, ne rivelerà i tratti piú giovanili, il bisogno di affetto e di aiuto. La fedeltà assoluta della nutrice le consentirà sfoghi piú aperti, confidenze meno guardinghe. La devozione sconfinata di Pereo (che porta pure una certa aura di fatalità infelice tutt’altro che stonata in questa tragedia, anche se con qualche eccesso di espansione “tenorile”) permetterà al poeta di meglio rilevare il fascino femminile di Mirra e gli aspetti piú energici della sua volontà, che non esita di fronte al sacrificio dello sfortunato innamorato.

Non è accettabile il giudizio desanctisiano sul I Atto della tragedia come estraneo al vero svolgimento tragico; ché anzi esso è essenziale (non semplice esposizione dell’antefatto) come lento ma sicuro avvio della tragedia, come impostazione e primo sviluppo del dramma di Mirra nell’atmosfera piú quotidiana e familiare che verrà poi incupita e drammatizzata senza brusche lacerazioni, come in una grande sinfonia in cui il tema fondamentale venga introdotto e mediato in forme piú lievi e sommesse, prima di farsi travolgente e imperioso.

Nel lungo dialogo fra Cecri ed Euriclea (la trama si verrà poi a mano a mano infittendo, i dialoghi si faranno poi gradualmente sempre piú tesi e incalzanti) vengono insieme evocati il caldo, confidente ambiente familiare, le condizioni di una vita tranquilla e pia, e nel crescere della trepidazione delle due donne, nel loro scrutare inadeguato e affettuoso nella vita di Mirra, l’immagine e la situazione di questa; mentre la stessa indicazione dell’ora imposta il tema del tempo (che poi incalzerà stringente e ossessivo le decisioni e gli atti di Mirra) in questa forma piú dolce ed elegiaca, in questa aura di consuetudine familiare:

Vieni, o fida Euriclea: sorge ora appena

l’alba; e sí tosto a me venir non suole

il mio consorte.[9]

E solo a poco a poco, nello scambio di impressioni progressivamente piú turbate e preoccupate delle due donne (piú acuta e penetrante Euriclea, piú pronta ad illudersi Cecri, che vede sempre in Mirra quasi una bambina e volge ogni segno del suo turbamento a condizioni piú adatte alla propria mentalità materna ed ingenua: cosí per lei il dolore di Mirra appare anzitutto l’effetto di un naturale turbamento di «donzelletta timida» nella scelta di uno sposo), si scopre non la causa, ma il carattere drammatico dello stato di Mirra. La sua malinconia, il suo muto dolore si svolgono nell’immagine delle sue notti angosciose, che pure trovano, nelle parole di Euriclea, una prima soluzione elegiaca dolcissima:

[...] ei [il sonno] piú non stende

da molte e molte notti l’ali placide

sovr’essa.[10]

nella descrizione del crescere dei suoi sospiri in singhiozzi e nella rivelatrice invocazione «Morte... morte» (la prima e l’essenziale parola di Mirra, la rivelazione della sua vocazione piú profonda), nella conclusione di Euriclea che riconosce infine nello stato di Mirra una «piaga / insanabil».

Cosí, a poco a poco vengono delineate la figura di Mirra, le qualità gentili della sua natura, i modi esterni della sua tragica situazione, le condizioni rivelatrici del suo stato: «morte», «piaga / insanabil». Ma ancora la trepidazione trova una possibilità di speranza sulla quale si chiudono il dialogo di Euriclea e Cecri e (dopo un breve monologo di quest’ultima che teme la vendetta di Venere senza riuscire a convincersene totalmente) quello di Ciniro e Cecri (scena 3). Anche questo intonato ad una gradazione di ansia crescente, di trepidazione affettuosa e incapace di giungere al centro del dramma di Mirra, e suggellato dalla caratteristica fiducia volitiva dei personaggi minori nonché da un essenziale accenno di Cecri al «voler concorde», all’«amor solo» che la lega al consorte: accenno che, mentre rinsalda cosí bene questa atmosfera di sicuri affetti familiari, ne anticipa la crudele esclusione di Mirra.

Anche il II Atto ha una prima parte di preparazione della comparsa di Mirra attraverso il dialogo di Ciniro e Pereo che presenta, nel tono umano e nobile dei due personaggi, altre immagini della protagonista vista ancora da Pereo nel fascino triste della sua bellezza malinconica e «illanguidita» dal dolore, nell’inesplicabile contrasto del suo chiedere e rimandare le nozze. O allude, con rapidi accenni, inconsapevoli in bocca a Ciniro, alla passione della figlia («S’ella infelice / per mia cagion mai fosse!», vv. 78-79), e complica, con la decisione concorde dei due di rimandare le nozze che essi credono causa del dolore di Mirra, l’azione di questa, quale si chiarisce subito al suo apparire sulla scena (scena 2), quando viene fatta chiamare dal padre e viene lasciata con Pereo che dovrebbe chiarire definitivamente il sentimento vero della fanciulla e liberarla dalla promessa di nozze.

Mirra, convinta della invincibilità della sua passione e della necessità della morte come unico mezzo di liberazione, ha però impostata la sua azione nel conseguimento della morte «di dolore», per mezzo delle nozze e dell’allontanamento da Cipro ed ora che, nelle parole di Pereo, vede tale obiettivo in pericolo, tanto piú essa si sforza di convincere l’innamorato a mantenere la data fissata per le nozze, a non superare i limiti di un giorno che sente come l’estremo termine della sua lotta e della sua capacità di contenere in sé la rivelazione della sua passione. E quella partenza, che essa fissa imperiosamente per la mattina seguente, si illumina, nel suo animo eccitato e bisognoso di immagini liberatrici, in una luce disperatamente radiosa, la esalta e rapisce con il suo significato di evasione che cosí poeticamente si traduce nella vasta, inebriante immagine, tante volte ritornante in questi primi Atti, del mattino in cui la sua nave darà «le vele ai venti»[11].

Ma le domande stupite di Pereo, che non comprende l’improvviso ardore di Mirra in questa ansia di evasione cosí contrastante con le ragioni prima da lei addotte a spiegare il suo atteggiamento turbato (il dolore di lasciare i genitori), e che insiste incautamente sulla parola del definitivo distacco:

Il patrio suol, gli almi parenti,

tanto t’incresce abbandonare; e vuoi

ratta cosí, per sempre?[12]...

sollecitano la piú istintiva sensibilità di Mirra e la inducono (tradita dalla sopraffazione improvvisa della passione che è sempre pronta a manifestarsi quanto piú sono eccitate fantasia e sensibilità) a rivelare il vero fondo della sua decisione di nozze e di partenza, della sua immagine di libertà e di evasione:

Il vo’;.., per sempre

abbandonarli;... e morir... di dolore...[13]

E poiché Pereo inorridito conferma la sua decisione di interrompere le nozze, Mirra, che vede sfuggirsi la mèta della sua azione, delusa nel suo funebre sogno, vagheggiato con tanta esaltazione, si abbandonerà, nel dialogo con Euriclea (a cui corre quasi timorosa di restar con se stessa e con la propria passione), alla disperata e piú diretta espressione del suo bisogno di morte liberatrice e punitrice del suo scellerato affetto («Morire, morire, / null’altro io bramo;... e sol morire, io merto») e alla richiesta di morte alla stessa Euriclea: richiesta tanto piú giustificata dalla piú chiara consapevolezza della vendetta di Venere, confermata dalla narrazione, della nutrice, dei sacrifici rifiutati dalla dea. Euriclea rimane solo inorridita alla richiesta di morte:

...Oh figlia! oh figlia!... A me la morte chiedi?

La morte a me?...[14]

E non avverte neppure quanto Mirra, nel rimproverarla della sua mancanza di «pietade magnanima», ha rivelato:

[...] io spesso

udía da te, come antepor l’uom debba

alla infamia la morte. Oimé! che dico?... –[15]

E Mirra dal suo diniego, e dal timore di lasciarsi andare a piú ampia confessione, è riportata a riprendere l’azione interrotta dopo il colloquio con Pereo: accettare ancora le nozze («Il partito, che solo orrevol resta»), e convincere della loro necessità i suoi genitori e lo stesso Pereo.

Questa nuova e piú intensa ripresa della complessa lotta di Mirra (tacere la sua passione e ottenere la morte «di dolore» per mezzo delle nozze e della immediata partenza da Cipro) si svolge nel III Atto e nella prima parte del IV, nei quali il dramma si sviluppa sempre piú intenso ed inquieto nei successivi, incalzanti incontri tra Mirra e i genitori, fra questi e Pereo, di nuovo fra Mirra e il fidanzato. E, mentre la infelice eroina spiega tutta la sua forza di persuasione per convincere genitori e fidanzato ad accettare la soluzione delle nozze, che essi ormai consideravano come la causa stessa del suo turbamento, essa quasi sembra illudersi del suo aspetto di soluzione felice e rasserenatrice, la carica di inebrianti immagini liberatrici e d’altra parte, nella necessità di giustificare tale decisione e le sue precedenti incertezze, sempre piú fa risuonare, sotto le immagini delle nozze e della partenza, l’eco tragica e funerea del suo scopo segreto. Sicché in quegl’incontri con gli oggetti della sua passione, della sua istintiva gelosia, della sua naturale ripugnanza (padre, madre, fidanzato) sempre piú fa vibrare i suoi “feroci martiri”, l’intreccio inestricabile della sua disperata volontà di purezza, della passione che si alimenta delle risposte amorevoli del padre, degli ingenui, incauti interventi della madre e la consapevolezza della potenza ostile di un nume «Irato [...] implacabile, ignoto».

Pietà e orrore, nelle parole degli altri e nelle sue, si alternano alle espressioni della sua personalità di vittima innocente e contaminata da una passione oscura ed empia. Affermazioni di altissima sensibilità morale e concessioni involontarie all’inconscio prevalere della passione si incontrano (in una trama sempre piú minuta, serrata, ricchissima di sfumature, di contrasti, di impeti e di pause malinconiche e dolenti) con le rappresentazioni squallide del tormento di Mirra, con le immagini con cui essa cerca di illudere i suoi e in qualche modo se stessa (coscienza del proprio stato disperato e illusioni e volontà liberatrice si fondono sempre piú strettamente), fino alla bellissima, tenera e struggente illusione (al cui fascino assurdo sembra momentaneamente cedere il suo stesso animo) di un successivo ritorno in Cipro con i figli che allieteranno la vecchiaia dei suoi genitori. E questi, turbati e dolorosamente perplessi, fra la sensazione della tragedia ineluttabile e la speranza e la volontà di salvare la figlia, stupiti, pietosi e inorriditi di fronte ad un tormento che di tanto supera la loro possibilità di comprensione e scuote paurosamente la solida pace in cui erano abituati a vivere, accettano ancora ciò che Mirra chiede con tanto disperato fervore, e a loro volta si fanno persuasori dello sventurato Pereo, lo inducono a un nuovo colloquio con Mirra in cui questa travolge ogni esitazione dell’innamorato con un’ultima, suprema espansione dell’immagine radiosa (e profondamente tragica nei suoi sottintesi) della prossima partenza; con l’esuberanza disperata dei nomi con cui essa lo invoca:

Sí, dolce sposo; ch’io già tal ti appello;

se cosa io mai ferventemente al mondo

bramai, di partir teco al nuovo sole

tutta ardo, e il voglio.

Il solcar nuovi mari, e a nuovi regni

irne approdando; aura novella e pura

respirare, e tuttor trovarmi al fianco

pien di gioja e d’amore un tanto sposo;

tutto, in breve, son certa, appien mi debbe

quella di pria tornare.

[...] io scelgo

d’ogni mio mal te sanator pietoso;

ch’io stimo te, ch’io ad alta voce appello,

Pereo, te sol liberator mio vero.[16]

Ed è a questo punto che la tragedia ha la sua svolta piú profonda e possente, quasi una prima catastrofe, dopo la quale essa si svolgerà in condizioni estreme di tensione, in un ambito sempre piú chiuso e disperato.

È la scena 3 dell’Atto IV, scena di alta perfezione e potenza poetica. Nella cerimonia delle nozze tutti i personaggi della tragedia sono raccolti intorno a Mirra, e Ciniro (con un atteggiamento di fiducia e letizia persino esagerate involontariamente a coprire l’ansia, gli inquieti presentimenti che lo turbano nell’intimo) dà inizio alla cerimonia, agli inni del coro che (ben diversamente dai canti di David nel Saul) hanno qui un originale valore drammatico (pur arieggiando certi modi convenzionali dell’innografia neoclassica del tempo) e superano ogni semplice valore letterario nella loro sicura, perfetta funzione tragica. Questi inni infatti (mentre costruiscono come una cupola sonora, ossessivamente monotona, come un alto salmodiare solenne sotto il quale cresce il concitato dialogo di Mirra coi personaggi minori e cresce l’irresistibile inquietudine della protagonista, fino allo scoppio furente della passione inizialmente dominata) contribuiscono direttamente a sollecitare le reazioni di Mirra, lo sviluppo mirabile della sua crescente tensione con le immagini che essi offrono alla sua «egra fantasia». Immagini che, per analogia o per contrasto, alludono tutte al suo stato infelice, eccitano la sua sensibilità con parole che continuamente la richiamano al suo amore colpevole e all’impossibilità di accettare le nozze aborrite. Le immagini coniugali e amorose sconvolgono la sua volontà e fan prevalere in lei istinto passionale, orrore del suo stato, ripugnanza per l’aborrito abbraccio di Pereo e orrore e vagheggiamento per quello che essa non può sperare, e di cui non può vincere il fascino morboso: «Stringi la degna coppia unica al mondo», «E in due corpi una sola alma traspianta» (vv. 137 e 157). Mentre le immagini di orribili tormenti che il coro evoca per deprecarli accendono in lei, per congeniale affinità col suo vero stato d’animo, un’incontenibile furia: specie l’ultima parlata del coro che evoca «la infernale Aletto, / con le orribili suore», la «rabbiosa, [...] feral Discordia» (vv. 169-170 e 174-175). E intanto l’attenzione degli altri personaggi, tutta concentrata in Mirra, mentre suggerisce le successive immagini della fanciulla (che, inizialmente calma, prima è percorsa da lieve tremito, poi si cambia tutta d’aspetto e vacilla sui piedi tremanti e infine traduce sul viso stravolto le furie che la agitano), accentua il suo turbamento rendendola cosciente di questo e tanto piú turbata nel vano tentativo di ricomporsi e dominarsi. Finché la scena magistrale culmina nel grido di Mirra vaneggiante, la cerimonia viene interrotta e Pereo disperato si allontana preannunciando l’inutile sacrificio con cui egli crede (suprema ironia della sorte di Mirra incompresa) di rendere l’amata libera e salva.

In quel momento invece è decisa la sorte finale di Mirra, che non potrà piú sperare nella soluzione tanto a lungo perseguita e dovrà ripiegare, delusa e sconfitta, sulla richiesta supplichevole e ardente della morte immediata. La chiederà a Ciniro, con parole in cui si confondono la disperata brama della morte liberatrice, la coscienza della propria indegnità e infelicità, il presentimento del triste suicidio e l’ardore appassionato che dà a quella speranza di morte per mano del padre-amante anche la sfumatura inconsapevole di un estremo, funereo appagamento amoroso:

Entro al mio petto vibra

quella che al fianco cingi ultrice spada:

tu questa vita misera, abborrita,

davi a me già; tu me la togli: ed ecco

l’ultimo dono, ond’io ti prego... Ah! pensa;

che se tu stesso, e di tua propria mano,

me non uccidi, a morir della mia

omai mi serbi, ed a null’altro.[17]

La chiederà (poiché il padre la nega) alla madre, che, ingenua, crede di poter consolare la figlia con una tenera affettuosissima assicurazione di perpetua vicinanza: una nenia dolce e carezzevole come un pietoso canto di culla, che con la sua stessa tenerezza eccita la sensibilità turbata di Mirra e con le invocazioni di una continua vicinanza della donna, che è anche la fortunata rivale, la sposa felice di Ciniro, provoca un moto di furia gelosa, prima ricacciato e superato nella rinnovata, piú imperiosa richiesta di morte:

Al mio destino orribile me lascia;...

o se di me vera pietà tu senti,

io tel ridico, uccidimi.[18]

poi liberamente sfrenato nell’appassionata contrapposizione delle due donne legate allo stesso amore:

Tu vegliare al mio vivere? ch’io deggia,

ad ogni istante, io rimirarti?

Tu prima, tu sola,

tu sempiterna cagione funesta

d’ogni miseria mia...[19]

La madre non comprende; e non comprende (nella trepida giustificazione con cui Mirra ricopre la rivelazione della sua passione) il tremendo accenno alla colpa nella nuova, piú struggente richiesta di morte da parte della figlia:

Tu, sí; de’ mali miei cagione

fosti, nel dar vita ad un’empia; e il sei,

s’or di tormela nieghi; or, ch’io ferventi

prieghi ten porgo. Ancor n’è tempo: ancora s

ono innocente, quasi...[20]

Sicché essa risolve lo stato di abbattimento della figlia nella ingenua, materna illusione di un vaneggiamento causato dalla debolezza fisica, dal bisogno di «alcun ristoro». E nell’onda morbida di questa nuova nenia materna si scioglie momentaneamente la tensione di Mirra e si chiude l’Atto.

Ma non si tratta che di una pausa illusoria e nell’ultimo Atto Mirra ricomparirà sulla scena (chiamata dal padre che vuol tentare – dopo il suicidio di Pereo – di giungere ad ogni costo all’individuazione del segreto della figlia per poterla soccorrere piú convenientemente), ormai disposta alla sua ultima disperata lotta, condotta sul limite delle sue forze e nell’intima coscienza della disfatta:

Oimé! come si avanza

a tardi passi, e sforzati! Par, ch’ella

al mio cospetto a morire sen venga?[21]

Non piú illusioni e immagini funebri e consolatrici insieme, non piú speranze di morte per mano del padre (solo all’inizio del dialogo, il rimpianto di questa occasione perduta): Mirra viene veramente a morire al cospetto del padre e il suo stesso linguaggio, che prima era anche capace di costruzioni complesse e volitive nella speranza e nella volontà di persuadere gli altri alle soluzioni piú desiderate, ora si è fatto spezzato, faticoso, e solo a poco a poco recupera una maggiore energia nel rinnovato supremo tentativo da parte della protagonista di celare almeno la natura e l’oggetto della passione e con ciò la sua dignità e purezza sotto l’incalzare delle interrogazioni del padre, divenuto piú acuto e stringente nella persuasione che la figlia celi un amore indegno (naturalmente non la passione incestuosa, ma forse un affetto per persona inferiore), un’«oscura fiamma» che causi la vergogna, che egli ormai chiaramente individua sul volto disperato e disfatto di Mirra.

Tutta la grandissima scena (la 2 dell’Atto V) si svolge nel contrasto fra la volontà di Ciniro che adopera alternativamente, per indurre la figlia a rivelarsi, i mezzi della minaccia e della amorevolezza (la minaccia di privarla del suo affetto, l’amorevole indulgenza per il suo fallo e persino la disposizione a comprenderlo e ad esaudire il suo desiderio), e la volontà di Mirra di celare la sua passione, di sfuggire al gorgo in cui si sente progressivamente cadere a mano a mano che nella sua difesa essa è costretta a ceder terreno, a rivelare qualche elemento del suo tremendo segreto. I due procedimenti adoperati da Ciniro (ricompare quasi l’energia e la sapienza inquisitoria di Filippo, ma in quale diversa direzione poetica!) spingono sempre piú Mirra là dove essa non vorrebbe essere ricacciata. L’amorevole comprensione del padre che scusa la passione e invoca incautamente la sua esperienza di uomo che conobbe «amor per prova», la induce a rivelare la natura passionale del suo tormento mentre proclama la decisione a non rivelarne il nome e l’oggetto:

Amo, sí; poiché a dirtelo mi sforzi;

io disperatamente amo, ed indarno.

Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai,

né persona il saprà: lo ignora ei stesso...

ed a me quasi io ’l niego.[22]

La minaccia della vergogna che la coprirebbe ammettendo proprio al padre un amore indegno, una «vile fiamma», la sforza a scoprire che la sua fiamma non è «vile», ma «iniqua». La nuova indulgenza di Ciniro che «non la condanna» (ancora fisso nella sua idea di un amore per un uomo di condizione sociale inferiore) la obbliga a precisare la particolare “iniquità” del suo affetto:

Raccapricciar d’orror vedresti il padre,

se lo sapesse... Ciniro...[23]

E quando (dopo che essa ha invano tentato di sottrarsi all’interrogatorio sotto cui si sente vacillare, sollecitata dalla stessa passione che cresce smisuratamente nella vicinanza del padre-amante e nelle continue lusinghe del suo parlare involontariamente ambiguo nei riferimenti affettuoso-amorosi) Ciniro la minaccerà di privarla per sempre del suo amore, essa, affascinata e atterrita dall’immagine estrema di una separazione e di una morte lontana dall’oggetto del suo amore, svelerà, nei suoi modi casti ed ardenti, tragici e appassionati, la natura e l’oggetto della sua passione:

Da te morire io lungi?...

Oh madre mia felice!... almen concesso

a lei sarà... di morire... al tuo fianco...[24]

Ciniro finalmente intuisce, anche se vorrebbe ancora ridurre la portata della rivelazione, e concedere alla figlia una diversa spiegazione:

Che vuoi tu dirmi?... Oh! qual terribil lampo,

da questi accenti!... Empia, tu forse?...[25]

Ma Mirra non può ulteriormente fingere e resistere, e la luce orrida della sua rivelazione (piú affidata agli «accenti», al significato del tono che allo stesso preciso contenuto delle parole) illumina anche la sua volontà, fino allora esitante ad attuare, anche se troppo tardi, l’unica soluzione veramente liberatrice.

La tragedia non si conclude con il gesto liberatore del suicidio. Il grande poeta ha intuito e realizzato un estremo, ulteriore svolgimento del dramma di Mirra tanto piú intimo, tormentoso, complesso di quello degli altri suoi eroi, e ben coerente all’estremo sviluppo del suo intero diagramma tragico. E come in certi grandi «tempi» beethoveniani il motivo drammatico trova ancora, quando par giunto al suo culmine, piú sottili ed intensi svolgimenti finali, cosí qui il dramma della infelice eroina trova altre supreme vibrazioni, un ultimo intreccio di pietà e di orrore, di squallida miseria e di purissima luce di virtú, di estreme illusioni e delusioni, di altri «feroci martiri» in un’ultima lotta di Mirra contro il limite tremendo che la rinchiude. Essa vuole illudersi di morir «men rea» perché si è punita con la morte:

Io vendicarti... seppi,...

E punir me... Tu stesso, a viva forza,

l’orrido arcano... dal cor... mi strappasti...

Ma, poiché sol colla mia vita.., egli esce...

Dal labro mio,... men rea... mi moro...[26]

e ha vendicato l’offesa fatta al padre con la rivelazione della turpe passione con cui ha contaminato in qualche modo anche lui[27], e spera di poter almeno celare il suo peccato alla madre, di non offendere e non contaminare anche lei. E in questa speranza la sua indomita volontà di purezza ancora si tende, mai rassegnata e “indolente”.

Ma anche questa speranza è frustrata. Cecri compare sulla scena, Mirra ne riconosce morente la voce («Oh voce!», ed è l’unica parola che essa pronuncia nella scena 3), e Ciniro è costretto a rivelare alla moglie il suicidio e lo scelus della figlia. E su questa cadono, come ultimi colpi della sorte implacabile, le parole inorridite dei genitori, l’invito di Ciniro a Cecri ad allontanarsi per «morir d’onta e di dolore altrove», l’addio della madre che la chiama «empia» e «sventurata» e che sottolinea proprio in un moto ininterrotto di tenerezza e di abbandono («Né piú abbracciarla io mai?») la solitudine in cui Mirra è lasciata, la sua definitiva esclusione da un mondo di affetti saldi e sicuri il cui calore, affascinante e tormentoso nella sua perdita irrimediabile, accresce per contrasto lo squallore della sua morte.

E quando si pensi come tutto il dialogo fra Ciniro e Cecri sia costruito sempre in funzione di Mirra e del tormento muto dei suoi ultimi momenti, ancor meglio si comprenderà il valore di questa scena che parve, a qualche critico, piú debole e quasi marginale (quasi un inutile dispersivo chiacchierio dei personaggi minori) e che invece giustamente l’Alfieri curò con grande attenzione in ogni suo minimo particolare («e qui si pesi ogni parola», scrisse per se stesso nel manoscritto della tragedia[28]), allargandola e graduandola piú perfettamente nella rielaborazione definitiva. Cosí come “pesò ogni parola” nella brevissima scena finale, nelle ultime parole che Mirra rivolge a Euriclea[29], muta testimone del suo martirio. Prima aveva abbozzato:

D’un ferro,

quand’io te ’l dissi, dovevi, Euriclea,

soccorrermi... Innocente.., io allor... moriva.[30]

Poi definí:

Quand’io... tel... chiesi,...

Darmi... allora,... Euriclea, dovevi il ferro...

Io moriva.., innocente;... empia... ora... muojo...[31]

Con queste supreme parole Mirra riassume i punti essenziali della sua vicenda, l’estrema infelicità di una conclusione piú dolorosa di quanto essa stessa potesse pensare, nello sconsolato confronto non fra la felicità e la morte, ma fra due morti, una «innocente», una «empia» (e tutto il divario è imperniato sulle due parole di “innocenza” ed “empietà” e sulla base costante della morte: «moriva», «muojo»), nel rimpianto di quella morte «innocente» che tanto incupisce lo squallore della morte «empia» (e quanta forza intensa nel contrasto del passato rimpianto e del presente aborrito: «allora», «ora»), ma che insieme indubbiamente induce in questa suprema catastrofe la luce di gentilezza, di eroica virtú a cui Mirra intona le sue parole, con cui Mirra appassionatamente ancora aspira alla sua innocenza, perduta nella rivelazione dello scelus, ma in realtà ancora cosí presente nel suo animo, nella sua voce purissima.

E se nelle ultime parole di Saul l’impeto eroico traspariva nella sua disfatta («almen da re, qui ... morto») e piú chiaro era l’ultimo urto con la forza superiore che lo abbatte («Sei paga, / d’inesorabil Dio terribil ira?»), in questa ultima parlata di Mirra ancor piú intimo e doloroso si è fatto il senso della crudeltà della sorte degli uomini e ancor piú limpida e affascinante la superiore pietà del poeta, la sua commossa ammirazione per le qualità nobili, eroiche della natura umana, tanto piú alte quanto piú essa è oppressa e tormentata, tanto piú provate quanto piú essa è intimamente pura, delicata, sensibile: sentimento tragico della vita, pietà e ammirazione tutti perfettamente tradotti in un personaggio e in una situazione, in una poesia che è l’estrema conclusione dell’esperienza poetica alfieriana piú autentica e storicamente profonda.


1 Si pensò poco utilmente alla Phèdre di Racine e al Tiridate di Campistron. La diversità sostanziale tra Phèdre e Mirra fu ben rilevata dal De Sanctis nel suo saggio del 1855 Janin e la «Mirra» (ora in Saggi critici, a cura di L. Russo, vol. I, Bari, Laterza, 1953, pp. 182-190).

2 Vita cit., I, p. 258.

3 Ivi, p. 259.

4 Citata alla nota 7.

5 In Ovidio semmai compare solo il dio Amore che rifiuta inorridito la paternità di una simile passione.

6 Come nel Saul l’Alfieri si serviva dell’ira di Geova a mitizzare la sua intuizione di una potenza tirannica ed oppressiva che limita la libertà degli uomini, cosí nella Mirra egli si serví della mitologia greca nel suo aspetto piú crudele: l’ira e la vendetta degli dei. E se la critica romantica (Bozzelli, Gioberti) trovò incredibile e sconveniente tale mito per una mentalità moderna, occorre dire che quel mito era ben coerente alla intuizione tragica alfieriana, in relazione alla quale va giudicata la “convenienza” e la “credibilità” di quel mito, cosí efficace nell’atmosfera di incubo che esso provoca in Mirra, nella sua coscienza di totale abbandono da parte degli dei.

7 S. Arteaga, Lettera alla Signora Isabella Teotochi-Albrizzi, riportata nei Ritratti di questa a partire dall’edizione di Padova, per Nicolò Zanon Bettoni, 1808 (la cit. dalle pp. 12-13 della Lettera), e accompagnata da una sensibilissima difesa dell’amica del Foscolo.

8 Ed. cit., p. 133.

9 At. I, sc. 1, vv. 1-3; in V. Alfieri, Mirra, Testo definitivo e redazioni inedite, ed. critica a cura di M. Capucci, Asti, Casa d’Alfieri, 1974, p. 33.

10 Vv. 75-77; ivi, pp. 35-36.

11 Un’immagine che torna piú volte e il cui valore concretamente simbolico-drammatico (immagine di liberazione e di evasione, tesa da complesse allusioni: un mattino che non sorgerà mai, una partenza affascinante e funerea) deve esser fortemente rilevato nell’ultima grande poesia alfieriana, in cui la piú esplicita tensione immaginosa del Saul (sentita dal poeta anche in polemica col suo secolo «niente poetico, e tanto ragionatore») si è risolta tutta in poche immagini essenziali, tanto piú intime e intensamente pure.

12 At. II, sc. 2, vv. 206-208; ivi, p. 50.

13 Vv. 208-209; ibid.

14 Sc. 4, vv. 312-313; ivi, p. 56. E si noti come questa scena bellissima preparasse l’oggetto del rimpianto disperato di Mirra nella sua ultima parlata: l’occasione di morire innocente negatale dalla nutrice.

15 Vv. 305-307; ivi, p. 55.

16 At. IV, sc. 2, vv. 50-53, 57-62 e 103-106; ivi, pp. 75, 76, 77.

17 Sc. 5, vv. 221-228; ivi, pp. 83-84.

18 Sc. 7, vv. 275-277; ivi, p. 86.

19 Vv. 282-283 e 289-291; ivi, pp. 86 e 87.

20 Vv. 296-300; ivi, p. 87.

21 At. V, sc. 1, vv. 34-36; ivi, p. 90.

22 Sc. 2, vv. 138-142; ivi, p. 94.

23 Vv. 169-170; ivi, p. 96.

24 Vv. 181-183; ibid.

25 Vv. 184-185; ivi, p. 97.

26 Vv. 193-197; ibid.

27 L’estrema finezza artistica adegua qui perfettamente l’acutissima sensibilità morale dell’Alfieri di questo periodo, realizza potentemente quell’ispirazione di pietà e di “altruismo” che si era espressa in maniera cosí esuberante e tragicamente inefficace nella Sofonisba.

28 E aggiunse: «e se [Ciniro] debba dir tanto, o piú, o niente» (cfr. ivi, pp. 228-229). Poi scelse giustamente la graduazione piú intensa e piú tormentosa per Mirra, sostituendo le battute con cui Ciniro rivela a Cecri il peccato della figlia, dopo una prima esitazione, all’unica battuta che prima aveva scritto: «Vieni, a noi figlia / piú non era costei. D’orrendo amore / ella ardeva per Ciniro» (ibid.).

29 Anche su questo particolare l’Alfieri aveva inizialmente esitato («e se questi due versi dicesse alla madre?», ivi, p. 230), ma la soluzione definitivamente adottata è certamente ben piú coerente alla geniale impostazione del finale: Mirra muore abbandonata dai due genitori uniti anche nel dolore dal «voler concorde», dall’«amor solo» di cui Cecri parla alla fine del I Atto. E d’altra parte la presenza della «fida» Euriclea, muta, impietrita nel suo dolore, serve anche a ricollegare quest’ultima scena con la prima richiesta di morte rivolta da Mirra ad Euriclea alla fine dell’Atto II, e dà al disperato rimpianto di quella occasione perduta l’amaro rinforzo della triste certezza di Mirra della giustezza di quella richiesta, e la tenerezza dolente di un pietoso rimprovero ad Euriclea, per non aver saputo comprendere e credere alle sue parole.

30 Ivi, p. 230.

31 Sc. 4, vv. 218-220; ivi, p. 100.